sabato 16 aprile 2016

Yusra, Popole, Raheleh: alle Olimpiadi per rappresentare i rifugiati

Dieci mesi fa era su un gommone con una ventina di altre persone in fuga dalla terribile realtà della Siria, nel tratto di mare tra la Turchia e la Grecia, quando il sovraffollato mezzo di fortuna iniziò a imbarcare acqua. I racconti la vogliono calarsi nel mare con la sorella e con alcuni volenterosi compagni di sventura e spingere a nuoto il gommone per più di quattro ore fino all'approdo all'isola di Lesbos. Ora Yusra Mardini, diciottenne nuotatrice che nel 2012 aveva rappresentato la Siria ai Campionati Mondiali in Vasca Corta, dopo aver raggiunto la Germania seguendo la via balcanica potrebbe coronare il suo sogno di partecipare alle Olimpiadi.
Un mese fa il Comitato Olimpico Internazionale ha approvato la partecipazione alle Olimpiadi di Rio del prossimo mese di Agosto di una squadra di rifugiati che sfileranno sotto la bandiera olimpica. A Losanna hanno identificato una rosa di una quarantina di candidati che probabilmente porterà a Rio una pattuglia di una decina di atleti e tra di loro vi è anche Yusra che una volta arrivata in Germania ha incrociato la sua strada con il Wasserfreunde Spandau 04, nella cui clubhouse vive tuttora, e con il tecnico Sven Spannekrebs che hanno aiutato lei e sua sorella con le pratiche per l'ottenimento dello status di rifugiato. Ora l'obiettivo di Yusra è raggiungere il tempo limite per qualificarsi ai Giochi, ancora una manciata di secondi la separano dal sogno. "Voglio che i rifugiati siano orgogliosi di me, li voglio incoraggiare" ha dichiarato qualche settimana fa. Già, la squadra dei rifugiati rappresenterà a Rio ben 20 milioni di persone.

E' quasi certa la partecipazione della judoka Yolande Mabika che, cittadina della Repubblica Democratica del Congo, con il compagno di squadra Popole Misenga è fuggita dalla sua squadra durante in Campionati Mondiali di Rio del 2013: non conoscevano nulla del Brasile ma la paura del ritorno in patria è stata più forte dell'incerto futuro che li attendeva. Nonostante la guerra civile ufficialmente fosse terminata nel 2003 il bagno di sangue continua a quelle latitudini: la madre di Misenga è morta in questo clima di violenze e il fratello è "desaparecido" (volendo prendere in prestito un termine che ricorda altri drammi). Nei mesi scorsi al Guardian, Yolande Mabika ha ricordato: "Voglio salire sul tatami per tutti i rifugiati del mondo, per difendere tutti i rifugiati del mondo". Forse per la prima volta dopo tre anni le Olimpiadi potrebbero permetterle di riprendere contatto con la sua famiglia: "Se mi vedranno n televisione potrò vare vedere il mio numero perchè voglio parlare di nuovo con mio padre e i miei fratelli".

Non è ancora certo se Raheleh Asemani, ventiseienne iraniana rifugiata in Belgio dove ora fa la postina, parteciperà alle Olimpiadi per le quali si è già qualificata nel Taekwondo rappresenterà il Belgio che il 17 marzo le ha accordato la naturalizzazione o se ostacoli burocratici la porteranno a sfilare dietro la bandiera olimpica nella squadra dei rifugiati.

Se i nomi di Yusra, Misenga e Raheleh sono già diventati di pubblico dominio l'altra quarantina di candidati è stata scelta, almeno per metà, nel campo profughi di Kakuma, un campo in Kenya a 90 chilometri dal confine con il Sudan del Sud, martoriato da un conflitto etnico senza fine, che accoglie 180.000 persone. Un programma finanziato dal comitato olimpico kenyota e dalla fondazione create dalla campionessa Tegla Loroupe ha organizzato dei veri e propri trial scegliendo 23 atleti, principalmente mezzofondisti, di Sudan del Sud, Burundi e Ruanda.

Con Memorie di Olimpia nei prossimi mesi seguiremo le vicende della squadra olimpica dei rifugiati, le storie di disperazione che si intrecciano con il sogno. In fondo per noi il messaggio olimpico è anche, se non soprattutto, questo.

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